Care compagne di viaggio e cari compagni di viaggio,
Mente in altre parti del mondo sembrava scoppiare la pace, sotto casa di Sigfrido Ranucci scoppiavano due autobombe.
Due autobombe.
Sono, oggi, la realtà: di un Paese che ama definirsi “democratico”, ma dove chi fa domande rischia di finire tra le fiamme.
Parliamo del collega Sigfrido Ranucci, giornalista coraggioso, volto e anima di Report, che nei giorni scorsi è stato oggetto di un vile attentato intimidatorio.
Due auto esplose, due avvertimenti chiari: stai zitto, o brucerai anche tu.
E allora, come sempre, si sono levate le voci indignate del giorno dopo.
Le dichiarazioni ufficiali, i comunicati, gli hashtag di solidarietà.
Tutti a dire “attacco alla libertà di stampa”, “colpo al diritto di informare”.
Ma la domanda è un’altra: chi difende davvero questa libertà, quando non ci sono auto che esplodono?
Perché è facile indignarsi davanti alle fiamme.
Meno facile è ricordarsi che il giornalismo libero brucia ogni giorno — lentamente — tra minacce di tagli ai fondi per l’editoria, querele temerarie, redazioni svuotate, pressioni politiche e pubblicitarie.
Sigfrido Ranucci non è solo un cronista d’inchiesta. È uno di quelli che fa domande, e in questo Paese chi fa domande dà fastidio.
Meglio chi scrive comunicati, chi regge il microfono o si limita a pubblicare le veline.
Meglio chi “non disturba il manovratore”.
Ma Sigfrido, no. Ranucci disturba.
E allora c’è chi ha pensato che il fuoco potesse mettere a tacere una voce.
Errore fatale: perché la verità, quando provi a bruciarla, illumina ancora di più.
Usiamo questo piccolo spazio che abbiamo a disposizione per dirlo con chiarezza:
non basta spegnere le fiamme, bisogna accendere le coscienze.
Perché se lasciamo soli i giornalisti che raccontano ciò che il potere vuole nascondere, prima o poi toccherà a tutti noi vivere nel buio.
Il coraggio di Ranucci è lo stesso di ogni cronista che sceglie la realtà invece della convenienza, che parla anche quando gli dicono di tacere.
Ecco perché oggi non basta la solidarietà. Serve una scelta:
stare dalla parte di chi racconta o dalla parte di chi fa saltare in aria.
Noi abbiamo scelto.
E continueremo, come lui, a disturbare il manovratore.
Perché il giornalismo non è un mestiere per anime tranquille. È, e sarà sempre, un atto di resistenza civile.