Un altro racconto dalla Alan Kurdi, un altro racconto che nasce dal lasciarsi guidare dalla voce che ti dice aspetta, ascolta e osserva. Vedo sul ponte una persona dell’equipaggio, un ragazzone affacciato a cui forse ho interrotto la pausa sigaretta. Infilo la mano nella grata e lo saluto, ricambia, non capisce subito il perché, gli mostro il cellulare per fargli capire che sono una giornalista, vedo che prende la mascherina e va verso la scaletta. Con me lo stesso splendido staff: il fotografo Stefano Lotumolo, Ludovica Cristofaro in veste di traduttrice e la psicologa Lidia Spano, esperta nel lavoro con i migranti e Giuseppe in collegamento emotivo con tutti noi. Una testa riccioluta chiara, la maglia blu della Alan Kurdi, un espansore nell’orecchio destro e un sorriso che fugge dalla mascherina per uscire dagli occhi.

Gli spieghiamo chi siamo e inizia l’intervista con Josh, primo ufficiale della Alan Kurdi, attraccata al porto industriale di Olbia.

“Qual è la situazione al momento?”                                                                                                                      

 “Abbiamo a bordo 60 persone. Tutti gli altri sono stati fatti scendere nella struttura allestita per la situazione”.

“Ci sono state particolari criticità durante il viaggio?”

“Otto persone sono dovute sbarcare a Lampedusa per motivi di salute, una persona aveva bisogno di essere operata”.

Ci spiega che i migranti provengono dalla Libia, ma da tre imbarcazioni diverse.

“Da quanto tempo sei sulla Alan kurdi?”

“Un anno e mezzo”

“Perché hai fatto questa scelta?”

“Lavoravo su un cargo che trasportava beni di lusso e mi sono chiesto perché continuare a trasportarli se c’erano persone che morivano di fame”.

“Quale ricordo porti dentro di te?”

“Il momento più toccante è sempre quando salgono a bordo. Sono spaventati, spaesati e impauriti”.

“Cosa avete detto ieri alle persone che vi hanno insultato?”

“Gli abbiamo sorriso e mandato amore”

“Cosa vorresti dirgli?”

“Di mettersi nei panni degli altri, di provare a pensare perché salgono una barca”.

E ci ripete la frase “Nessuno mette i figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra”, dalla poesia Home, di Warshan Shire.

Non sappiamo quanto ancora resteranno, ma sappiamo che gli occhi di Josh resteranno con noi per sempre, perché sono gli occhi della Pace. Lo salutiamo, lo ringraziamo e lui ringrazia tutti voi, tutti voi che mi state scrivendo in queste ore, tutti voi che non siete odio.

Parliamone...

Di Elena Mascia

Ho iniziato a scrivere da bambina, per necessità, per aprire una finestra sul mondo di qualcun altro come quelle che mi venivano aperte dai libri che leggevo, da uno in particolare che non dimenticherò: Saltafrontiera, che a soli nove anni mi aveva trasportato nella vita, nelle difficoltà, nelle tradizioni, di bambini provenienti dai più diversi paesi al mondo. Non ho mai smesso di interessarmi alle tematiche sociali, non ho mai smesso di desiderare di poter ascoltare e raccontare le storie di vita vera e vissuta, senza distinzioni. E' per questo che sono diventata giornalista pubblicista, per continuare a raccontare l'invenzione della verità, che non ha niente di sorprendente, solo rapporti di causa ed effetto tra incroci di vita, di luoghi e di persone, l'unica strada che non voglio abbandonare.

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