Era inevitabile? Era davvero inevitabile che migliaia di persone morissero senza il conforto di un volto conosciuto, amato, sperato? L’emergenza sanitaria dovuta alle conseguenze della diffusione del Covid-19 è tutt’altro che superata, guai ad abbassare la guardia, ma è lecito continuare a porsi degli interrogativi, perché se è vero che la pandemia era stata prevista dagli esperti almeno da dieci anni (affermando che non sarebbe stata l’unica), è doveroso comprendere al più presto quali comportamenti replicare e quali mai più. In Italia, i numeri aggiornati al 10 gennaio sono pari a 78.755 morti. Migliaia di vite, di storie, di tracce di legami presenti e passati, esauriti nella paura della morte, o meglio, nella paura della morte senza il dolce accompagnamento di una moglie, di un compagno, di una figlia, di un fratello, di un amico.

Una misura imposta per limitare il contagio, una misura imposta ai parenti delle vittime, una misura valevole per tutti, o quasi. I cappellani, ad esempio, hanno continuato ad avere libero accesso. Morire muniti dei conforti religiosi è importantissimo per cattolici praticanti e non, ma quale volto vorreste avere con voi negli ultimi istanti della vostra vita terrena? Un particolare che non è sfuggito a nessuno, tanto più ad un’infermiera dell’Ospedale di Pisa, reparto Covid, come ha rilevato il giornalista Massimo Calandri per Repubblica, che ha aperto il suo articolo con la frase della donna.

“Ma se in rianimazione entra tutti i giorni Don Luca, il cappellano, perché non possono farlo anche i parenti dei malati?”. Era il mese di ottobre dell’anno appena trascorso, quando l’interrogativo si è fatto strada, arrivando, risultati alla mano, presso la giunta regionale Toscana che, per la prima volta in Italia, “ha dato il via libera alle visite nelle strutture sanitarie (ospedali, case di cura, Rsa). Tutto è iniziato con una donna, la figlia di un anziano paziente che ormai veniva considerato senza più speranze”. Poco dopo le visite della donna, le condizioni dell’uomo sono iniziate a migliorare, tanto che poco dopo ne è stato disposto il trasferimento in un altro reparto.

Il primo caso in cui il limite paziente-famigliare è stato oltrepassato, i primi dati incoraggianti di una ripresa costante e non casuale che ha determinato il “basta con i divieti” come riporta l’inviato attraverso le parole di Paolo Malacarne, responsabile della rianimazione dell’ospedale pisano: “Avere vicini i propri affetti nei reparti di rianimazione fa bene, è scientificamente provato, ci sono fior di pubblicazioni sul tema. Cerchiamo di umanizzare la cura. Da quando è stato permesso ai familiari di vistare gli ospiti particolarmente vulnerabili e fragili, le condizioni delle vittime più gravi della pandemia sono migliorate in maniera evidente. I primi otto ospiti sono passati al piano di sotto, quello dei casi meno gravi. Molti episodi diversi, però progressi costanti”.

Un esperimento iniziato il 26 ottobre, portato avanti con le stesse regole da osservare per “chi lavora nel reparto. Medici, infermieri, operatori sociosanitari, tecnici e personale per le pulizie. Se va bene per loro, perché non dovrebbe essere lo stesso per una moglie o una figlia che siede su una sedia accanto al letto della persona cara?”. Il reportage chiude con un dato spiazzante: “Il 70 per cento dei casi può essere aiutato dalla presenza di parenti, che risulta fondamentale per la tenuta psicologica e l’aderenza al trattamento. Non solo una questione umana, ma terapeutica”. E allora mi domando, e dovremo domandarci tutti, cosa si aspetta e replicare il modello toscano?

photo credit: Olga Kononenko

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Di Elena Mascia

Ho iniziato a scrivere da bambina, per necessità, per aprire una finestra sul mondo di qualcun altro come quelle che mi venivano aperte dai libri che leggevo, da uno in particolare che non dimenticherò: Saltafrontiera, che a soli nove anni mi aveva trasportato nella vita, nelle difficoltà, nelle tradizioni, di bambini provenienti dai più diversi paesi al mondo. Non ho mai smesso di interessarmi alle tematiche sociali, non ho mai smesso di desiderare di poter ascoltare e raccontare le storie di vita vera e vissuta, senza distinzioni. E' per questo che sono diventata giornalista pubblicista, per continuare a raccontare l'invenzione della verità, che non ha niente di sorprendente, solo rapporti di causa ed effetto tra incroci di vita, di luoghi e di persone, l'unica strada che non voglio abbandonare.

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