Caetano Veloso scrive e canta l’epopea di un indio. “Indio” nel senso di indigeno, natural da terra, nativo originario, erede di quegli uomini che attraversarono lo stretto di Bering e popolarono le Americhe. “Indio” perché creduti da Colombo abitanti delle Indie. Caetano Veloso scrive e canta la profezia di un indio, forse l’ultimo: scenderà da una stella colorata, brillante, veloce come freccia, come la luce, dopo lo sterminio dell’ultima nazione indigena, degli ultimi popoli isolati, dopo l’annientamento dello spirito degli uccelli e quando ogni fonte di acqua limpida sarà ormai solo una pozza secca, l’Indio arriverà e si poserà sul cuore dell’emisfero sud, in America, e in quell’esatto momento, nello spazio di un istante, tutto si rivelerà nella sua chiarezza, ogni dubbio verrà dissipato.

La canzone fu scritta negli anni settanta, ma i poeti sanno come interpretare anche il mondo che verrà. E quel mondo descritto da Caetano Veloso tanti anni fa, è arrivato davvero. La devastazione dell’immensa Amazzonia, la distruzione del territorio nazionale, la scomparsa di animali e alberi per far posto alle miniere, l’uso massiccio dei veleni nell’agricoltura latifondista, l’abolizione delle norme di protezione ambientale, tutto si avverato nel modo più crudele.

Il Brasile muore lentamente sotto gli occhi del mondo infame. Un mondo che non ha mai favorito la crescita economica sostenibile, ma ha sempre finanziato e stimolato il retrocesso industriale, attraverso l’appoggio esplicito a politiche protezionistiche, l’incentivo alla monocultura, alla produzione di materie prime da comprare a basso costo per poi rivendercele manifatturate a prezzi altissimi.

Ignoro se il console italiano, l’ambasciatore, gli alti funzionari del ministero, gli inviati della comunità europea, sempre presenti capillarmente in tutto il territorio nazionale, informino, con dovizia di dati e analisi obiettive, quello che sta succedendo in Brasile. Lo ignoro. Ad ogni modo il silenzio internazionale, il silenzio dei governi e delle istituzioni preposte alle relazioni tra i paesi, ha qualcosa di molto inquietante.

Nel momento in cui il governo italiano diventa un comitato di gestione d’affari, direttamente commissariato dall’Unione Europea, il Brasile trema. Infatti da tempo serpeggia l’idea di un intervento esterno per salvare le risorse ambientali dalla politica suicida di distruzione. Un intervento diretto dalle potenze occidentali, già presenti sul territorio, con i loro tecnici e consiglieri, con le loro ONG, con le connivenze esplicite di molti magistrati legati a Think Tank potentissime, a loro volta, propaggini di agenzie di spionaggio istituzionale ed industriale.

L’idea è quella antica ed efficientissima del bastone e la carota: stimolare la distruzione attraverso l’appoggio del governo Bolsonaro per poi intervenire con la forza, sia economica che militare, per togliere la sovranità brasiliana su quello che viene considerato patrimonio comune, il polmone del mondo, l’Amazzonia. È stato detto, è stato scritto, è stato divulgato. Macron, lo ha detto, Biden lo ha detto e qui mi fermo perché la lista è lunga.

Arukà Juma

Oggi, l’insufficienza respiratoria, il Covid, la pandemia, che ha già ucciso 255.000 brasiliani, uccide Aruká Juma, l’ultimo uomo dell’etnia Juma. Lottava per la vita fin dalla nascita, 86 anni fa. Lottava per la sua terra, per la sua gente, per la sua lingua, la sua storia, la sua dignità. Nelle ultime settimane la lotta era per quel filo d’aria che i polmoni non riuscivano più a trattenere senza l’aiuto di tubi e respiratori.

Aruká Juma, lascia tre figlie e quattordici nipoti ai quali ha insegnato tutto quello che imparò da suo padre e da suo nonno, quando ancora erano 15.000 le persone della sua gente. Aruká Juma vide la sua terra essere invasa dai cercatori d’oro e di pietre preziose, vide la foresta essere abbattuta e incendiata, vide la sua gente morire massacrata a colpi di fucile dell’esercito, braccio armato del latifondo. La sua lotta riuscì ad obbligare il governo centrale a riconoscere l’esistenza del suo popolo, il cui territorio venne incluso nel programma federale di protezione solamente nel 2004.

La Coiab (Coordinamento delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana), la APIB (Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile) e l’OPI (Osservatorio dei diritti umani dei popoli indigeni isolati) scrivono un comunicato durissimo: «L’ultimo uomo sopravvissuto del popolo Juma è morto. Il governo brasiliano si è dimostrato ancora una volta incompetente per una criminale omissione. Aruká è stato assassinato dal governo, lo stesso governo che ha ucciso i suoi genitori e progenitori. È una perdita irreparabile e devastante».

Accusano il governo di omicidio. 34.592 indios appartenenti a decine di etnie diverse, sono stati infettati, 783, sono morti, non a causa del Covid, ma per la mancanza di un piano nazionale di protezione per le persone più vulnerabili: un’azione deliberata del governo assassino di Bolsonaro.

Ma un Indio arriverà, scrive e canta Caetano Veloso. Arriverà preservato in pieno corpo fisico e si rivelerà ai popoli del mondo, tranquillo, impavido e infallibile, scenderà da una stella e si poserà sul cuore dell’emisfero sud: Aruká Juma.

Paolo D’Aprile / pressenza.com

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Di Redazione

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