Quando un giornalista o una giornalista vengono uccisi, è come se il silenzio, il buio e l’immobilità avessero colpito all’improvviso la comunità intera. Una zona d’ombra che ammanta e tuttavia mette in luce la pericolosità di quanto costi, ancora oggi, dire la verità.

Lo sapeva bene Marìa Elena Ferral, reporter del Diario de Xalapa, uccisa in Messico il 30 marzo mentre saliva in macchina.

Non l’avevano fermata le minacce di morte, non l’aveva fermata la dura critica dei politici locali, perché un reporter non si ferma davanti alla paura, va avanti consapevole di fare un mestiere che non finisce una volta usciti dalla redazione.

Un mestiere che ti porti addosso, che ti fa vedere oltre le cose, oltre i fatti apparentemente normali, per seguire l’istinto, consultare le fonti, per capire gli equilibri e gli squilibri di Nostra Signora degli Affari.

Ha lottato fino all’ultimo Marìa Elena Ferral, durante le sette lunghe ore trascorse in ospedale, dove è stata operata d’urgenza dopo la sparatoria: due sicari su una moto le hanno scaricato diversi proiettili in varie parti del corpo, inutili i soccorsi; la giornalista, con un’esperienza trentennale alle spalle, non ce l’ha fatta. Si muore così, raccontando i fatti nella loro linearità, in Messico come in molti, troppi Paesi nel mondo.

Nove i giornalisti uccisi dall’inizio del 2020, 227 i giornalisti incarcerati, sì perché prima della morte fisica, si tenta con la privazione della libertà. Quasi 900 i giornalisti uccisi negli ultimi dieci anni nel mondo e al contrario del pensiero comune, a fare da sfondo non sono sempre i teatri di guerra, ma scenari comuni, con una percentuale di uccisioni in zone non conflittuali che va oltre il 55% negli ultimi due anni.

Una frase spiega, più di tutto, quanto siano subdole le conseguenze che si abbattono sui giornalisti impegnati a denunciare i fatti che nessuno vuole raccontare: “Mamma è stata uccisa prima dal fango che dal tritolo”. A pronunciarla, uno dei tre figli di Daphne Caruana Galizia – la giornalista uccisa a Malta il 16 ottobre 2017 – durante un’intervista rilasciata a Roberto Saviano.

Vite spezzate e impunità dilagante, con ben 9 casi su dieci che restano irrisolti. Corruzione, criminalità e politica, sono queste le storie scomode che legano la lunga serie di omicidi a un sistema che non vuole essere svelato, almeno non oltre la superficie delle dichiarazioni programmate e prevedibili fatte ai microfoni fuori dai palazzi del potere. E ancora intimidazioni e minacce, attacchi che ledono la quotidianità, che gettano nel terrore: sarebbero almeno 523 in Italia negli ultimi due anni i reporter interessati da questo genere di azioni, come riportato a metà marzo dall’Osservatorio Ossigeno per l’informazione.

Numeri che non suscitano lo sdegno che dovrebbero, numeri che ancora non sono abbastanza per il risveglio della società nel rispetto di una professione, quella del giornalista d’inchiesta, che non si sceglie, si asseconda come la più naturale delle necessità.

Elena Mascia

Parliamone...

Di Elena Mascia

Ho iniziato a scrivere da bambina, per necessità, per aprire una finestra sul mondo di qualcun altro come quelle che mi venivano aperte dai libri che leggevo, da uno in particolare che non dimenticherò: Saltafrontiera, che a soli nove anni mi aveva trasportato nella vita, nelle difficoltà, nelle tradizioni, di bambini provenienti dai più diversi paesi al mondo. Non ho mai smesso di interessarmi alle tematiche sociali, non ho mai smesso di desiderare di poter ascoltare e raccontare le storie di vita vera e vissuta, senza distinzioni. E' per questo che sono diventata giornalista pubblicista, per continuare a raccontare l'invenzione della verità, che non ha niente di sorprendente, solo rapporti di causa ed effetto tra incroci di vita, di luoghi e di persone, l'unica strada che non voglio abbandonare.

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