Tutti sapevano, ma nessuno faceva niente. Il silenzio e l’omissione, consumatesi davanti a violenze fisiche, verbali, vessazioni e insulti nei confronti dei detenuti del braccio C da parte di alcuni agenti. Una situazione che andava avanti da marzo 2017 a settembre 2019, all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Ventuno gli agenti coinvolti dall’inchiesta, che ora dovranno rispondere dell’accusa per il reato di tortura e lesioni. L’indagine, lunga e delicata, ha fatto emergere un quadro disarmante, configuratosi in un clima di assoluta indifferenza, nonostante le precise segnalazioni del garante dei diritti dei detenuti di Torino, Monica Gallo.

La Gallo si era rivolta al direttore del carcere, Domenico Minervini, in diverse occasioni. Dure le parole riportate da La Stampa: “aiutava gli agenti a eludere le indagini dell’autorità omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza”, nonostante quelli che i magistrati hanno definito “trattamenti inumani e degradanti”. Almeno venti gli episodi ricostruiti dagli investigatori, dai pugni agli schiaffi, dagli sputi alle minacce, come quando a un detenuto sottoposto a visita medica per i traumi dopo un pestaggio è stato intimato di riferire di essere stato picchiato da un altro detenuto altrimenti – riporta la procura – avrebbero usato nuovamente violenza su di lui.

Si parla di vere e proprie celle “dedicate alla punizione dei detenuti con scompensi psichici” (Repubblica). L’inchiesta, condotta dal pubblico ministero di Torino, Francesco Pelosi, ha portato all’accusa di favoreggiamento e omissione nei confronti del direttore del carcere: “Il direttore Domenico Minervini, 50 anni e il capo degli agenti, Giovanni Battista Albertotanza 46 anni, non avrebbero preso i dovuti provvedimenti”. Si parla addirittura di un’inchiesta interna che avrebbe portato a incolpare i detenuti invece che gli agenti della Penitenziaria.

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Di Elena Mascia

Ho iniziato a scrivere da bambina, per necessità, per aprire una finestra sul mondo di qualcun altro come quelle che mi venivano aperte dai libri che leggevo, da uno in particolare che non dimenticherò: Saltafrontiera, che a soli nove anni mi aveva trasportato nella vita, nelle difficoltà, nelle tradizioni, di bambini provenienti dai più diversi paesi al mondo. Non ho mai smesso di interessarmi alle tematiche sociali, non ho mai smesso di desiderare di poter ascoltare e raccontare le storie di vita vera e vissuta, senza distinzioni. E' per questo che sono diventata giornalista pubblicista, per continuare a raccontare l'invenzione della verità, che non ha niente di sorprendente, solo rapporti di causa ed effetto tra incroci di vita, di luoghi e di persone, l'unica strada che non voglio abbandonare.

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