E’ una questione complessa quella delle violenze compiute dalle forze di polizia. Si rischia di cadere nelle generalizzazioni, o di riportare il fenomeno secondo uno sguardo superficiale, soprattutto a causa della difficoltà nel portare a termine interviste e reportage, con fini statistici sull’argomento, che siano interne agli stessi ambienti militari.

A seguito dei recenti fatti di Minneapolis, è ancor più necessario e doveroso porsi domande, per cercare di comprendere cosa si può e si deve fare per prevenire queste azioni e evitare di intervenire sempre e soltanto durante l’emergenza, o per meglio dire, a morte avvenuta. In questo articolo ho cercato di darmi delle risposte: “È interamente una questione di razza, o ci sono altre componenti sociali, culturali e comportamentali?”.

Mi spiego meglio. Come si arriva a gestire una situazione critica, che avrebbe una serie di alternative comportamentali, con la violenza, fino a uccidere o a determinare lesioni gravi al fermato? Odio razziale, “niente di più”, come se non fosse già abbastanza ovviamente, o c’è dell’altro? Mi ha fatto riflettere uno studio riportato su epicentro.iss.it, pubblicato partendo dal femminicidio compiuto da Richard Concoran, dove si legge che: “Richard è un soldato, e non è il primo protagonista di questo tipo nella storia della base militare di Fort Bragg (North Carolina): Concoran è già il decimo dal 2002 ad aver ucciso la moglie. Se includiamo anche le violenze non mortali, ci sono state 832 vittime di abusi domestici dal 2002 […]. L’esercito ha un serio problema di violenza domestica, o, come la definiscono le forze armate, una questione di aggressioni coniugali. […]. Gli episodi di violenza domestica sono da 2 a 5 volte più frequenti nelle famiglie dei militari. Nel 1990 il problema riguardava 19 soldati su 1000, nel 1996 era diventato 26 su 1000. Dopo che tre soldati a Fort Campbell uccisero a distanza di breve tempo le rispettive mogli, è stata istituita una task force per studiare il problema. Il risultato? Nel 2004 sono stati riportati 16.400 casi di violenza domestica. E questo considerando anche che molti militari hanno passato almeno un periodo lontano dalla moglie. L’esercito sa di questo problema, ma lo lega al fatto che i soldati sono spesso giovani e poveri, e quindi il confronto andrebbe fatto secondo loro con gli altri cittadini appartenenti a queste categorie, e non in generale”.

Utilizzare la violenza come principale modalità comportamentale, che in questo caso diventa una costante, ma andiamo avanti. Nel libro “Lavorare in polizia: stress e burnout” (di Francesco Garrer e Sergio Garbarino) si riportano alcuni dati in merito a uno studio condotto sulla salute mentale delle forze armate britanniche (GEE): “il tasso di disturbi mentali è più elevato del 30 per cento rispetto alla popolazione generale”. All’interno della stessa pubblicazione vengono menzionate le percentuali rispetto a un’altra statistica, condotta sempre sulle forze armate britanniche, più precisamente una ricerca del King’s College: dopo aver intervistato 14.000 militari britannici, il gruppo guidato da Mac Manus, ha rilevato che “militari e ex militari hanno maggiori probabilità di commettere un reato violento, 3 volte superiori a quelle dei loro coetanei civili”. Il dato aumenta fino al 53 per cento di probabilità se si parla di personale rientrato da zone di conflitto come Iraq e Afghanistan.

Per tornare ai nostri giorni, altrettanto preoccupante è la situazione francese, dove nei “quartiers (quartieri popolari) “solo nella settimana tra l’8 e il 15 aprile sono morte 5 persone in circostanze legate a controlli di polizia. Una di queste, un senzatetto, è morta all’arrivo in commissariato a Beziers. Questo numero è impressionante rispetto alla tendenza generale, comunque già in crescita nell’ultimo decennio: BastaMag, che tiene conto degli omicidi legati a interventi della polizia dal 1977, ha recensito 26 morti in tutto il 2019” (DinamoPress)”.

L’attivista antirazzista Assa Traoré, del Comitato verità e giustizia per Adama e Dominique Sopo di SOS Racisme hanno stigmatizzato l’intervento delle BAC nei quartieri popolari. Steve Pozar, delegato della polizia dell’UNSA, ha invitato lo Stato a mettere in campo “tutti i mezzi per porre fine a questi atti che tendono a riprodursi sempre più frequentemente”.

Ricollegandomi alla situazione americana, ho trovato condivisibile questa analisi giornalistica, risalente al dicembre 2019: “Nel considerare il perché le forze dell’ordine americane facciano un uso così assiduo di metodi violenti, il fattore più importante da considerare è quello culturale. La police brutality sembra essere veicolata soprattutto attraverso una cultura interna estremamente corporativista e omertosa, che esalta il machismo degli agenti – promuovendo soluzioni più nette e dure – e permeata di un razzismo profondo e radicale. Gli agenti di polizia si sono, storicamente, mossi in un contesto sociale in cui la targetizzazione di certi frammenti della società – nella fattispecie, le minoranze razziali – ha incontrato il benestare di buona parte delle istituzioni e della società civile. […] La polizia americana ha commesso, tra il 2017 e il 2018, ben 2.311 omicidi – oltre tre al giorno. Il tasso di omicidi di afroamericani è tre volte superiore a quello dei bianchi”. […] Infine, il corporativismo e l’assenza di meccanismi di accountability per gli agenti che commettono abusi di potere creano uno schermo protettivo.

L’Europa dal canto suo è stata già richiamata nel 2018 dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali, a seguito dei risultati contenuti nel rapporto che ha coinvolto 12 paesi, tra cui l’Italia: “occorre sviluppare orientamenti specifici, pratici e pronti all’uso per garantire che i funzionari di polizia non conducano la profilazione razziale nell’esercizio delle loro funzioni”. Cambiare gli orientamenti dunque e, mi verrebbe da aggiungere, ripensare la formazione, il famoso addestramento per capirci. Una prima parte di osservazione che non intende concludersi qui, sarebbe davvero riduttivo, ma che vuole accendere più di un pensiero sulle zone d’ombra di un agito compiuto sotto una coltre di silenzio ancora troppo spessa.

Elena Mascia

Parliamone...

Di Elena Mascia

Ho iniziato a scrivere da bambina, per necessità, per aprire una finestra sul mondo di qualcun altro come quelle che mi venivano aperte dai libri che leggevo, da uno in particolare che non dimenticherò: Saltafrontiera, che a soli nove anni mi aveva trasportato nella vita, nelle difficoltà, nelle tradizioni, di bambini provenienti dai più diversi paesi al mondo. Non ho mai smesso di interessarmi alle tematiche sociali, non ho mai smesso di desiderare di poter ascoltare e raccontare le storie di vita vera e vissuta, senza distinzioni. E' per questo che sono diventata giornalista pubblicista, per continuare a raccontare l'invenzione della verità, che non ha niente di sorprendente, solo rapporti di causa ed effetto tra incroci di vita, di luoghi e di persone, l'unica strada che non voglio abbandonare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *