Posso serenamente dire che, oggi come ieri, il mio impegno contro la violenza sulle donne non prende vigore nella giornata del 25 novembre né si manifesta con più forza, perché è un argomento che si trova esattamente tra il mio dna di donna e quello di comunicatrice. Non c’è scissione, ma c’è ricerca di trovare sempre stimoli nuovi che conducano a spunti di riflessione senza automatismi. L’altra sera la mia attenzione si è soffermata su un particolare, che da qualche giorno è rimasto a rincorrersi nella mia mente, alla ricerca di un approdo in cui essere sviscerato.

Il suo volto, la sua immagine, le sue frasi e oramai, la sua storia, hanno fatto il giro del Mondo: sto parlando di Kamala Harris, prima vicepresidente asiatica e nera degli Stati Uniti. Su di lei, oltre la scelta se assegnarla tra le fila dei troppo moderati o custodirla nella teca delle icone del cambiamento, non ci sono state particolari critiche, salvo in riferimento alle sue origini e a chi mettesse addirittura in discussione la sua “americanità”. Ed è qui che mi voglio soffermare, sulle sue origini e quel momento che più di tutti, ritengo abbia determinato il suo destino, quel fato che si decide quando il potere di scelta non è ancora nelle mani dell’individuo in quanto adulto, ma di chi ne ha in cura la crescita e lo sviluppo.

Stavo leggendo il mensile Internazionale e più precisamente un articolo tradotto dal Guardian, di Arwa Mahdawi, dal titolo “Il potere di Kamala Harris”. Lungo, specifico, approfondito, ripercorre la storia della Harris dalle sue prime cariche ai primi passi nella politica, ma è più avanti che il mio sguardo si sofferma, quattro pagine dopo, quando arrivo alla traduzione dell’articolo della giornalista Rikha Sharma Rani, per l’Atlantic. Il titolo è “Nel nome della madre” e parla della storia della famiglia della Harris, figlia di una madre, Shyamala Gopalan Harris, avviata a una laurea in scienze domestiche in India (strada che scelse di non percorrere quando comprese di voler diventare una scienziata). Non parliamo di un periodo recente, parliamo di una giovane donna che dopo i primi anni Cinquanta chiese a suo padre di seguire un dottorato a Berkeley in nutrizione e endocrinologia.

Non discuto l’agiatezza della famiglia, parliamo di un alto funzionario dell’amministrazione coloniale britannica in India – il padre era andato via di casa da giovane per lavorare a Delhi dove non conosceva nessuno – ma lasciar partire comunque la propria figlia, da un paese profondamente patriarcale dove “il tasso di  alfabetizzazione delle donne è nettamente più basso di quello degli uomini e l’aborto selettivo, in base al sesso, anche se illegale, è ancora diffuso”, rappresentava comunque una scelta non da tutti. La madre della Harris, Gopalan, arrivò negli Stati Uniti quando “l’ingresso agli indiani era limitato al solo numero di cento all’anno”, nel bel mezzo delle proteste che fecero la storia contro l’ingiustizia razziale, l’imperialismo, la Guerra in Vietnam. Fu proprio durante il periodo da attivista che conobbe Donald Harris, dottorando di Berkeley, di origine giamaicano e nero. Ancora una volta Gopalan fa saltare le convenzioni e le sovverte per affermare il diritto alla libera scelta, sia essa professionale, sia essa personale. Un matrimonio che fu definito uno scandalo in India, ma da cui nacquero due figlie, Kamala e Maya.

“Non lasciare che siano gli altri a dirti chi sei, sei tu che devi dirglielo”. Sono le frasi che la neo vicepresidente degli Stati Uniti si è sentita dire da sua madre, le frasi con cui è cresciuta, con cui si è saldata la sua formazione. Volendo fare ancora un passo indietro, mi sono immaginata la porta girevole (per definire  letteralmente l’effetto metaforico di sliding doors) della vita prima di Gopalan e poi della Harris, che sta tutta racchiusa lì, in quel passaggio, esattamente quando il padre ha sostenuto la sua scelta. Una donna, Kamala, che ha sempre citato il coraggio di sua madre, e una madre Gopalan, che ha avuto la ricchezza di avere un padre che ha detto Sì contro un paese che avrebbe detto unitamente No alla sua partenza. Vite di donne che  hanno accresciuto il proprio bagaglio personale e professionale, consapevoli di avere dietro le spalle non uomini osteggianti, ma figure d’uomo a supporto. Sicuramente Gopalan sarebbe riuscita ugualmente a realizzare le sue aspirazioni, certamente con qualche anno di ritardo, oppure no. Non possiamo saperlo, ma alcuni esempi di “trasmissione intergenerazionale di uguaglianza di genere” e non solo di violenza, credo vadano ricordate e diffuse. Il mio contributo a questa giornata termina così, con questa forma e sostanza, con questa commozione e riflessione per tutte quelle figlie che affrontano la vita con nel cuore il sostegno delle madri e quello dei padri insieme. Valore aggiunto, ma non scontato.

Dedicato, anzi, augurato a tutte quelle donne che la propria libertà, non possono neanche immaginarla.

(foto di Joes Valentine)

Parliamone...

Di Elena Mascia

Ho iniziato a scrivere da bambina, per necessità, per aprire una finestra sul mondo di qualcun altro come quelle che mi venivano aperte dai libri che leggevo, da uno in particolare che non dimenticherò: Saltafrontiera, che a soli nove anni mi aveva trasportato nella vita, nelle difficoltà, nelle tradizioni, di bambini provenienti dai più diversi paesi al mondo. Non ho mai smesso di interessarmi alle tematiche sociali, non ho mai smesso di desiderare di poter ascoltare e raccontare le storie di vita vera e vissuta, senza distinzioni. E' per questo che sono diventata giornalista pubblicista, per continuare a raccontare l'invenzione della verità, che non ha niente di sorprendente, solo rapporti di causa ed effetto tra incroci di vita, di luoghi e di persone, l'unica strada che non voglio abbandonare.

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