Ci sono frasi che tornano ciclicamente nel dibattito pubblico italiano. Non perché siano efficaci, ma perché sono comode.
Una di queste è il celebre “siete solo dei poveri comunisti”, recentemente riesumato dalla ministra Bernini per liquidare alcuni studenti contestatori.
Un’espressione di berlusconiana memoria, usata non per spiegare, ma per archiviare. Non un’argomentazione, bensì un’etichetta. Un modo rapido per evitare il confronto e rassicurare il proprio pubblico di riferimento.
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Un grande classico della scorciatoia politica
Quando un ministro risponde a una contestazione con uno slogan, non sta parlando ai contestatori. Sta parlando ai tifosi. È una comunicazione verticale, che non cerca dialogo ma consenso immediato.
Eppure, se davvero vogliamo parlare di “comunisti”, vale la pena farlo con un minimo di onestà intellettuale. Perché l’essere comunisti, nella storia italiana, non è mai stato sinonimo di povertà culturale. Semmai il contrario.
La ricchezza culturale dell’essere comunisti
Antonio Gramsci, comunista incarcerato dal fascismo, scriveva nei Quaderni del carcere:
“La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore.”
Una definizione lontanissima dalla caricatura del comunista ignorante o marginale. Gramsci ha costruito una delle più influenti riflessioni politiche e culturali del Novecento europeo, studiata ancora oggi in tutto il mondo.
Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista Italiano, ricordava che:
“La democrazia vive del contributo attivo dei cittadini.”
Un principio che trova piena espressione proprio nel dissenso, nella partecipazione, nella protesta. Esattamente ciò che quegli studenti stavano facendo.
E poi c’è Enrico Berlinguer, che parlava di austerità non come rinuncia, ma come progetto di civiltà:
“L’austerità è il mezzo per trasformare la società.”
Un’idea oggi quasi rivoluzionaria, in un contesto in cui la ricchezza viene misurata esclusivamente in termini economici.
Rossana Rossanda, infine, ci ha lasciato una delle definizioni più lucide dell’essere comunisti:
“Essere comunisti non è una nostalgia, ma un’inquietudine permanente.”
Ed è forse proprio questa inquietudine a disturbare: la capacità di mettere in discussione l’esistente, di non accettare le cose così come sono.
Quando mancano le risposte, arrivano gli slogan
Dire “poveri comunisti” non chiarisce nulla. Serve solo a evitare il merito delle questioni sollevate dagli studenti. Serve a semplificare ciò che è complesso e a ridurre il conflitto politico a una battuta da talk show.
Ma la storia insegna che quando il potere smette di argomentare e comincia a etichettare, non è segno di forza. È segno di stanchezza culturale.
Conclusione
Se essere comunisti significa pensare, studiare, dissentire, immaginare una società più giusta, allora non siamo poveri. Siamo, semmai, ricchi di idee.
Il vero impoverimento, oggi, non è ideologico. È linguistico. Ed è di chi governa riducendo il dibattito pubblico a slogan logori.